MAMM'E FIGLI

Alcuni giorni dopo il mio arrivo a Pristina mi venne a salutare un collega, un Maggiore che in Patria lavora a Roma. L'Ufficiale aveva saputo che sono originario di Montecalvo Irpino e ci teneva a farmi sapere che anche lui vi era nato. Poiché il cognome non mi suonava familiare, gli chiesi di chi fosse figlio. Mi spiegò che a Montecalvo c'era solo nato e che, ancora in fasce, era stato adottato da una famiglia forestiera che gli aveva dato il cognome. Della madre naturale ricordava solo il casato che mi riferì in maniera un po' storpiata. Riuscii, tuttavia, a capire di chi si trattasse. Il collega parlava in modo risentito della nostra compaesana, dalla quale, mi disse, si era sentito abbandonato, e della quale non voleva saper nulla. Conoscendo io la sfortunata e le condizioni in cui viveva all'epoca della nascita di questo figlio, gli dissi di non odiare quella persona, di non giudicarla e, soprattutto, di non condannarla perché, tutto sommato, lei gli aveva fatto due doni immensi: gli aveva dato la vita (poteva pure abortire) e un avvenire decoroso che gli sarebbe senz'altro mancato se fosse rimasto a Montecalvo. Con le mie parole cercai di sottolineare che per le due mamme il ruolo più facile era stato quello dell'adottiva: lei aveva avuto il figlio tanto desiderato, di cui prendersi cura e su cui riversare tutto l'amore inespresso a causa della sua sterilità; all'altra la vita aveva strappato un pezzo di cuore: perché si può dubitare della ragione, non dell'istinto materno. 
L'atteggiamento di Leonardo (lo chiamo così per non citarne il vero nome) sembrò mutare e quasi addolcirsi. Il collega mi aveva ascoltato assorto, senza mostrare fastidio per quello che gli avevo raccontato. La sua rabbia del primo momento mi sembrò sfumare. Ci salutammo con la speranza di incontrarci qualche volta a Montecalvo per cercare di fare qualche conoscenza ancora possibile.
Questa storia fa il paio con quell'altra della nostra compaesana “Trappeto” (anche lei adottata da una famiglia forestiera) che chiese aiuto, attraverso il forum di irpino.it, per sapere qualcosa sulle sue origini (post del 27 marzo 2008 - pag. 3 di 24). 
Storie strane? No, purtroppo solo storie tristi, piuttosto frequenti da quelle parti!
In quell'angolo di mondo, dove la lotta per la sopravvivenza era veramente ardua e la vita si spendeva nella sola ricerca del pane quotidiano, accadeva non di rado che i bambini fossero dati in adozione. 
Per quel che ne so io, due erano le ragioni alla base di queste decisioni: l'interesse economico e il costume.
Per interesse, però, non deve intendersi quello dei genitori, quanto quello del piccolo: la famiglia, in previsione delle migliori condizioni economiche in cui avrebbe vissuto, concedeva in adozione il proprio figlio a parenti facoltosi senza prole. Nella mia famiglia, per esempio, mio nonno materno, rimasto orfano in tenerissima età, era stato cresciuto da uno zio rientrato dall'America a cui non mancavano soldi e proprietà; il fratello di mio padre fu cresciuto anche lui da uno zio ex emigrante americano. Per entrambi il patronimico derivava dai padri adottivi, per rimarcare il riconoscimento, anche sociale, di questa filiazione. Così mio nonno materno, Pizzillo di cognome, era conosciuto come Antonio Lucariello (perché adottato da Leonardo Lucariello); mio zio Nicola, figlio di Antonio, era per tutti Cóla di Nofrio (perché adottato dallo zio Onofrio).
A volte qualche vantaggio economico arrivava anche ai genitori naturali, ma si trattava di regalie di poco conto e credo si possa escludere che fosse questa la ragione prima di questi “scambi”.
Altra causa determinante di queste adozioni era il costume. Al Trappeto di un tempo le relazioni sociali erano regolate da un codice di comportamento, tramandato di padre in figlio, che disciplinava ogni ambito sociale fin nei minimi particolari. Ad esempio stabiliva come regolare le relazioni interpersonali distinguendo tra parenti, compari o semplici amici. Ma anche come gestire un lutto in famiglia (finanche che tipo di lutto vestire e per quanto tempo a seconda del grado di parentela). Oppure, come chiedere la mano di una ragazza e come comportarsi durante il fidanzamento affinché fosse salvo l'onore della giovane e della sua casa. Ovviamente non faceva eccezione il comportamento sessuale; anzi, era proprio questo uno degli ambiti meglio regolati, perché il comune sentire doveva dominare l'istinto. 
E come ogni codice anche quello trappetaro, oltre a dettare le regole, prevedeva delle sanzioni.
A chi vi si atteneva, il costume conferiva onore, dignità, rispetto e considerazione. Bisogna tenere ben presente che per chi non aveva casato, né conoscenze influenti, né proprietà (altro fattore “nobilitante”) la reputazione della gente della propria condizione era un importante fattore di elevazione. Essere pari tra gli ultimi, essere soggetti al solo giudizio della gente stimata, erano la massima ambizione sociale possibile per chi si vedeva preclusa a priori qualsiasi altra aspirazione. 
Viceversa, chi si discostava dai canoni perdeva ogni considerazione e diventava ultimo degli ultimi.
Se, in questo “stato di costume”, una ragazza ingenua cedeva alle lusinghe di qualche disonesto e si concedeva, era marchiata definitivamente: “puttana” a vita! Veniva offesa, emarginata, isolata, “cantata”: i fatti intimi, veri o presunti, diventavano il testo di canzoni popolari cantate a squarciagola durante il lavoro nei campi o durante il bucato alla fontana. Mi sovviene qualche verso di uno di questi canti sentito, quando ero ragazzo, da un'anziana vicina di casa. Faceva così: 

Vidi che ba dicennu Giuannu di ***tu, 
li figlie di*** songu tutti ddoie 'nginti;

E Tresa *** cu la capu a tuppo, 
li figlie di *** so puttani di tutti;

*** cu lu fronte a martieddru, 
senti cantani a *** e sammola lu curtieddru

oj***che ti l'ammuli a fani, 
la canzoni ja bella e n' zi pote abbandunà
ni (la sanzione sociale andava comminata!). 

A volte persino la famiglia girava le spalle alla sfortunata, per non avallarne il comportamento scorretto, limitare l’infamia e non compromettere del tutto la propria reputazione. Così, per la sventurata iniziava una vita di solitudine e di stenti per vivere e crescere il figlio; accettando tutti i lavori offerti e, spesso, perseverando nell'errore, questa volta per bisogno. Il matrimonio della sventurata diveniva possibile solo con uomini con evidenti menomazioni fisiche o con trascorsi discutibili. Gli sposi possibili, sapendo che le poverette dovevano accontentarsi, dettavano le loro condizioni. Una, particolarmente spietata nei confronti delle ragazze madri, era quella di liberarsi dei figli nati da relazioni irregolari prima del matrimonio. Perché la femmina “mancata” (così era anche detta, in forma più pietosa, la sventurata) si poteva redimere, poteva diventare una buona moglie, risalire qualche gradino nella scala sociale, alleggerire l’ostracismo nei suoi confronti: ma doveva allontanare fisicamente i figli della colpa, le prove del suo passato di donna di facili costumi. Perchè era meno grave, secondo le regole del costume, sposare una “puttana” senza figli: si evitava almeno il disonore di dover lavorare per crescere i figli degli altri.
Ecco, quindi, la seconda causa degli affidamenti di neonati: la schiavitù dal costume. 
Tanti bambini venivano strappati alle madri ed adottati da famiglie forestiere (particolare importante quest'ultimo). L'unica cosa capace di addolcire la pena delle sventurate era la consapevolezza di averli sottratti alla miseria e ad una vita di umiliazioni a cui sarebbe andati incontro quali figli di un dio minore (...quiddri figli di puttana). Tuttavia, il matrimonio guadagnato a così caro prezzo non portava mai felicità vera sui volti di quelle mamme trappetare, invecchiati anzitempo per le fatiche, gli stenti e per questi macigni che si portavano nel cuore. L’unica cosa capace di far sorridere queste infelici era il raccontare dei loro figli persi. Solitamente, le famiglie adottive consentivano ai figli qualche sporadico contatto con la madre naturale. In quelle rare occasioni le mamme apprendevano dei progressi fatti dai figli nello studio, nella vita, nel lavoro. Chissà come sarebbe stata fiera Concetta (nome di fantasia) se avesse saputo che il suo Leonardo è un Ufficiale dell’Esercito. Chissà a quanta gente l’avrebbe raccontato. E con quale sorriso sulle labbra.
Quando dico che il Trappeto, oltre che un luogo, era una condizione, mi riferisco proprio a questi drammi umani, sconosciuti altrove e mai raccontati in nessun “testo sacro” della sapienza paesana.
Che il mercimonio non fosse nell'animo dei Trappetari è provato da un altro fatto sociale assolutamente rilevante: le numerosissime adozioni attive da parte degli umili. Esse rivelavano una straordinaria capacità d’amore ed una sensibilità insospettabili in quel luogo di miseria. Una gentilezza d'animo che contrastava con il rude modo di essere di quella gente, come contrastano alla vista le rose selvatiche che sbocciano tra la boscaglia dei limitari delle strade di campagna.
Le mamme che perdevano un bambino alla nascita o subito dopo, per non sprecare il proprio latte, erano solite prendere in affidamento temporaneo, per alimentarlo fino allo svezzamento, un lattante dall’orfanotrofio di Avellino. Questi piccoli al Trappeto erano indicati come i figli di puttana, in senso dispregiativo verso le madri naturali, oppure come i figli di latte in segno di riguardo verso gli stessi bambini incolpevoli o verso le famiglie adottive. Per queste adozioni temporanee le famiglie affidatarie ricevevano in cambio un piccolo contributo, il cosiddetto sussidio di baliatico introdotto da una legge del 1928 (L. 2838/28 e r.d.lgs. 798/27). Allo svezzamento i bambini potevano essere riportati all’orfanotrofio in attesa di un’adozione definitiva. Quasi sempre, però, le famiglie riversavano su quei neonati l’effetto per il figlio perso, ci si affezionavano e ne chiedevano loro stesse l’adozione. L’orfano diventava il settimo, ottavo o anche il decimo figlio di quella famiglia e l’affetto dei genitori e dei fratelli era lo stesso che per i figli naturali. In proposito ho un aneddoto da raccontare. Mia zia, Maria Soragnese (D'Addona di cognome), aveva preso per l’allattamento un maschietto a la rota di Avellino e lo allevava con lo stesso amore con cui avrebbe allevato il figlio natole morto. Al tempo dello svezzamento, mio zio, che si trovava al fronte, le scrisse di riportare il bambino ad Avellino: una bocca in più da sfamare avrebbe pesato troppo sulla traballante economia della famiglia, soprattutto in tempo di guerra. La moglie gli rispose che a lei mancava il coraggio per fare quello che le chiedeva: al suo ritorno, se fosse stato dello stesso parere e se ne avesse avuto la forza d'animo, l'avrebbe potuto riportare lui quel figlio all’orfanotrofio! Il marito tornò dal fronte, ma nemmeno lui si sentì di privare nuovamente quel fanciullo del calore di una mamma: Vespasiano (così si chiama il figlio adottivo) restò in famiglia e fu il quarto di cinque figli. Qualche anno dopo su quella casa si abbatté una grave disgrazia. Il figlio Antonio, un ragazzo di circa 12 anni, un giorno di primavera marinò la scuola e se ne andò alla jumara con un suo amico più grande, Fedele Tufo di circa 16 anni, che doveva condurre i maiali al pascolo. Fedele era figlio di Giovanna Falova e Giuseppe Vavone. I due ragazzi rinvennero tra i sassi del fiume un ordigno inesploso, residuato della Seconda Guerra Mondiale. Ci si misero a giocare, l’ordigno esplose e tutti e due saltarono in aria. I loro corpi si ridussero letteralmente in brandelli. I genitori si trovavano al lavoro nei loro campi e fintanto che furono avvertiti e giunsero sul posto, i maiali ebbero il tempo di mangiare parte dei corpi dei ragazzi. Si può immaginare lo strazio delle madri. Tutto il quartiere si strinse loro attorno. Quando una vicina andò a fare le condoglianze a mia zia, credendo di dire una cosa sensata che potesse rincuorare la triste madre ebbe a dire: “fosse almeno successo a quel figlio di latte”. A queste parole mia zia rispose, con la stessa ferocia di una fiera a cui avessero toccato i cuccioli: “Oj none, nun mi diciti accussì. S'era succiessu a quiddru era la stessa cósa, ca 'nda lu cori miju 'ngi sta nisciuna parzialità: figliu ja l'ùnu e figliu ja l'àtu!”
Credo che una dichiarazione d’amore più grande sia addirittura inimmaginabile. 

Pristina, 12 gennaio 2009