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DICEMBRE AL PAESE

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Corteo nuziale - immediato secondo dopoguerra
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Tra tutti i mesi dell'anno quello di dicembre è un mese veramente particolare. Capace di portare un'atmosfera irreale, quasi magica, persino al Trappeto di un tempo. Tra quelle persone da cui ogni serenità sembrava fuggita, scacciata dalla durezza della quotidianità.
Tra tutti i mesi dell'anno quello di dicembre è un mese veramente particolare. Capace di portare un'atmosfera irreale, quasi magica,
persino al Trappeto di un tempo. Tra quelle persone da cui ogni serenità sembrava fuggita, scacciata dalla durezza della quotidianità.
Un mese scandito da un susseguirsi di feste religiose (ricordate in una filastrocca contadina "li sei Nicola, l'ottu Maria, li tridici Lucia, li vindicincu lu Figliuolu di Diu") e di eventi lieti di altra natura. Il giorno sei veniva celebrata la festa di San Nicola a cui era dedicata la parrocchia del Carmine, di cui facevano parte tutti i trappetari. Dopo la messa venivano distribuite le pagnottelle.
Tra tutti i mesi dell'anno quello di dicembre è un mese veramente particolare. Capace di portare un'atmosfera irreale, quasi magica,
persino al Trappeto di un tempo. Tra quelle persone da cui ogni serenità sembrava fuggita, scacciata dalla durezza della quotidianità.
Un mese scandito da un susseguirsi di feste religiose (ricordate in una filastrocca contadina "li sei Nicola, l'ottu Maria, li tridici Lucia, li vindicincu lu Figliuolu di Diu") e di eventi lieti di altra natura. Il giorno sei veniva celebrata la festa di San Nicola a cui era dedicata la parrocchia del Carmine, di cui facevano parte tutti i trappetari. Dopo la messa venivano distribuite le pagnottelle.
 
Piccoli pani cerimoniali che, benedetti nel corso del rito religioso, venivano distribuiti alla gente che li consumava in famiglia in segno propiziatorio. L'otto si festeggiava l'Immacolata Concezione. Il tredici Santa Lucia, altra Santa “Trappetara” la cui statua veniva portata in processione dalle donne del rione.
Nei campi i grossi lavori si erano conclusi con la semina e i nuovi sarebbero ripresi nell’anno nuovo. Dicembre era il mese della raccolta delle olive, attività non particolarmente gravosa e fatta in allegria, nonostante la bora gelata, perché l’olio era considerato un alimento prezioso. Il frutto dell’olivo, usato come condimento come il grasso del maiale, era detto "nu puorcu crisciutu e buonu” (un maiale già allevato) nel senso che costituiva una  ricchezza per la casa, senza che avesse comportato particolare impegno o l'impiego di altre risorse come, invece, richiedeva l'allevamento del maiale. Per la brevità dei giorni di dicembre, i raccoglitori di olive mangiavano una volta sola, verso le dieci, quando facevano colazione e pranzo insieme. Sempre nello stesso mese, con i primi freddi, avveniva la macellazione del maiale. In un giorno di abbondanza e di festa i familiari, i compari, gli amici, i vicini si riunivano per aiutarsi e per condividere una giornata d'allegria. Terminato il lavoro si andava a pranzo.Il piatto principale della giornata era lu frittu (la frittura): le frattaglie del maiale (fegato e polmone), fritte con il grasso dello stesso animale insieme alle patate e ai peperoni conservati sott’aceto. Per primo c’erano li maccaruni accattati, generalmente gli ziti rotti a mano che, raramente presenti sulla mensa del povero per il loro costo, aiutavano a creare un clima da giorno speciale. La pasta era  condita con il sugo preparato con la carne di papera o di altri animali da cortile. Il pranzo si chiudeva con la frutta secca e taralli fatti in casa. Il tutto annaffiato con abbondante vino della propria vigna. Dopo pranzo, nel tepore della cucina, gli uomini si intrattenevano a giocare a carte fino a sera inoltrata. Ufficialmente per vigilare sul maiale appeso fuori, che poteva essere rubato. Il giorno dopo, o l’altro ancora, se l’indomani capitava la ricorrenza di Santu Vastianu si procedeva a sparti lu puorcu (sporzionare la carne e a preparare i salami). Per una popolare credenza, si riteneva che il giorno della settimana in cui quell’anno fosse capitata la festa di San Sebastiano (per esempio se il 20 di gennaio, festa del Santo, cadeva di domenica, tutte le domeniche dell’anno erano considerate giornate “pericolose”), non si potessero lavorare i cibi destinati alla conservazione, come i salami, appunto, o la salsa di pomodoro, o le verdure sott’olio. San Sebastiano, però, non era l’unico “pericolo”, anche le donne con le mestruazioni o che la sera prima fossero state in intimità col marito, non potevano toccare le conserve che, altrimenti, si sarebbero guastate.
Anche quello della preparazione dei salumi era un giorno di gioia e di abbondanza: si mangiava la carne fresca del maiale, si lavorava ancora in festosa compagnia. Soprattutto si provvedeva la dispensa per l’anno successivo. Si preparavano i salumi che sarebbero stati consumati secondo una determinata successione, per gustarli al punto giusto di stagionatura e per non sprecare nulla. Così circa dieci giorni dopo già si mangiavano le nnoglie (intestino dell'animale – generalmente il colon – lavato, tenuto prima a curà con le spezie, quindi seccato) crude o arrostite e le cotenne, cotte con i fagioli o nel sugo come involtini. A gennaio le salsicce: prima quelle di pignata (fatte con la carne meno pregiata, come quella della testa) cotte col sugo o con la verdura; poi quelle fatte con la carne migliore. A febbraio il filetto salato (le costole del maiale private della carne migliore, già impiegata per fare gli altri salumi) anch’esso cotto nel sugo per la pasta o nella verdura. A fine febbraio erano pronte le soppressate: qualcuna veniva mangiata subito, altre conservate sott’olio per l’estate.
A marzo il guanciale, ad aprile la pancetta. Alla falciatura del fieno il capicollo, a maggio la spalla, ad agosto il prosciutto. Finiva, così, che come il susseguirsi dei lavori nei campi, anche la mensa scandisse il passare delle stagioni.
Poi arrivava il Natale, con la cena della vigilia dal menu rigorosamente rispettoso del divieto di ‘ngammarà (mangiare i cibi “peccaminosi” come la carne, il lardo, lo strutto). Il menu tipico prevedeva gli spaghetti con sugo all’anguilla; il baccalà fritto, oppure lessato e condito in insalata con olive verdi, peperoni sott'aceto, aglio e prezzemolo; il capitone fritto; i peperoni ripieni con la mollica di pane, l’acciuga e i pinoli. Poi le zeppole, le ciambelle, i fichi secchi, le castagne conservate dal tempo del loro raccolto in recipienti di fortuna, coperte con rena precedentemente asciugata sul fuoco per evitare il germogliare dei frutti.  La mattina della festa i bambini  giravano per le case di tutti i parenti per fare gli auguri. Da tutti ricevevano qualche spicciolo, qualche dolce e qualche bicchierino di Strega o Vermouth (liquori adatti ai bambini perché dolci!).
 
Dicembre era anche il mese in cui si celebravano più matrimoni. Durante il periodo delle feste di fine anno le famiglie erano “a pieno organico”: gli emigranti erano rientrati. La cerimonia era stata preceduta dalla promessa di matrimonio in comune (spusà a lu sinnicu) che si svolgeva anche un anno prima, dopo il fidanzamento e dopo aver cumbinatu
(stretto un patto, con cui i genitori si erano accordati su cosa dare ai rispettivi figli). Ora gli sposi si dovevano sposare in chiesa per potersi  aunì (unire -  andare a vivere insieme). La cerimonia aveva inizio la mattina a casa degli sposi. Ciascuno riceveva i propri invitati vestiti a festa (a volte con abiti avuti in prestito) a cui offriva qualche pastetta, un po' di liquore e i confetti. All'ora convenuta lo sposo con i propri invitati raggiungeva la casa della sposa e da qui insieme a lei ed ai suoi parenti si andava in chiesa, in due cortei ancora distinti: la sposa con i suoi invitati avanti e lo sposo con i suoi invitati dietro.

Da casa propria a casa della sposa e dalla casa di questa alla chiesa lo sposo faceva coppia con la cummare di fede, mentre la sposa era accompagnata al braccio del cumpare di fede . Quando non c'erano i compari di fede la sposa veniva  cacciata  (non nel senso cattivo del termine ma ufficialmente accompagnata fuori dalla casa paterna) dal padre o dal fratello maggiore. Dopo la cerimonia religiosa gli sposi, finalmente in coppia, precedevano il corteo degli invitati per raggiungere la casa dove era stato organizzato lu banchettu (il pranzo nuziale). 
 
 
Le case dei contadini, generalmente, non erano abbastanza grandi per contenere gli invitati e non era raro chiedere in prestito, a qualche benestante, l'uso di qualche magazzino o stanzone.  Per avere un'idea delle condizioni in cui si svolgeva un pranzo nuziale, basta guardare il quadro di 
Pieter Bruegel il Vecchio "Nozze contadini" che sebbene dipinto qualche secolo prima, sembra ritrarre una scena di un pranzo nuziale delle nostre parti. 
 
Alla fine del pranzo, eccezionalmente abbondante, gli sposi aprivano le danze. Durante il primo ballo i parenti che non avevano fatto ancora il regalo, appendevano le banconote sugli abiti degli sposi. Si vedevano così questi due giovani coprirsi piano piano di bigliettoni da cinque e diecimila lire, fino a che i vestiti scomparivano alla vista. Ognuno appendeva i soldi sull’abito dello sposo da cui era stato invitato. Anche in questa occasione non mancavano le furbate: qualche parente compiacente appendeva subito una banconota di grosso taglio (che gli veniva poi restituita) che faceva da specchietto per le allodole e stimolava regalie generose.
 
  

 

 

Tuttavia, tutto questo che ho sinora raccontato sarebbe stata solo routine se non fosse stato per l'evento principe del mese di dicembre trappetaro: il rientro a casa degli emigranti. Ogni famiglia aveva qualcuno fuori: il marito, un figlio, un fratello, una sorella. Il ricongiungersi a loro stravolgeva la quotidianità: la normalità della famiglia riunita veniva finalmente raggiunta. Gli emigranti tornavano ad assaporare il calore della famiglia, l'affetto dei padri, i piaceri del talamo. Godevano della vicinanza dei loro figli, ritrovano le premure delle mogli.
Anche le case dalle pareti annerite dal fumo del camino, erano ingentilite da oggetti insoliti, ordinari altrove ma surreali in quelle case: una radio a transistor, un macinacaffé elettrico, un tirabruciò (tire-bouchon), un apriscatole a farfalla, un coltello di marca opinel per tagliare il pane... I bambini, a parziale ristoro delle carezze mancate, giocavano con giocattoli belli e mangiavano cioccolata svizzera (per una volta invidiati dagli amici). I vecchi fumavano sigarette con il filtro, accese con gli accendini usa e getta. Tutte le case erano illuminate fino a tardi, in alcune si ballava fino a notte fonda sulle note di un organetto suonato ad orecchio o di qualche giradischi arrivato dal Belgio o dalla Germania.
Insomma, dicembre era il mese in attivo di chi la vita la viveva a rate.
Ma come la magia di un paesaggio innevato svanisce allo sciogliersi della neve, anche l’apoteosi dicembrina del Trappeto sfumava con le prime tristi partenze. Il quartiere  ritornava alla sua malinconica ordinarietà. E, con la solita  rassegnata calma, si cominciavano a contare i giorni mancanti alla prossima rata.  
      Pristina (Kosovo), 17.12.2008